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Roma, 20 ottobre 2015

referendum petrolio | intervista di Lacorazza a TV2000 nella trasmissione SIAMONOI

Che i cittadini non siano più disposti a dare molto credito alle istituzioni è chiaro da tempo. A Napoli si direbbe “A ‘cca ‘a pezza e ‘a cca’ ‘o sapone”, che poi non è tanto diverso dal “Vedo, pago, voto” in voga al tempo delle estenuanti / inconcludenti discussioni sul federalismo fiscale.Certo è che oggi un’istituzione si può sentire vicina solo se costa poco ed è in grado di dare risposte ai problemi e alle aspettative della comunità. In questo quadro, mentre siamo al punto di crisi più forte nel rapporto fra istituzioni e cittadini, torna il dibattito sulle “macroregioni”, che a parere di chi le propone  sarebbero la giusta risposta per rendere queste istituzioni di area vasta efficaci, efficienti e competitive a livello europeo.

Magari sono solo coincidenze, ma l’irruzione del tema “macroregioni” nella discussione al Senato sulla riforma del Titolo V della Costituzione viene subito dopo il deposito dei quesiti referendari da parte di dieci Regioni sulle norme che riguardano le procedure autorizzative delle attività petrolifere. In questi giorni sulla stampa se n’è parlato molto. Il tema principale che, al di là degli orientamenti generali pro o contro il petrolio, le Regioni pongono con i quesiti referendari è il seguente: le istituzioni locali non possono essere escluse dalle decisioni che riguardano i loro territori.

Da questo punto di vista, sembra quasi che le “macroregioni” vengano impugnate come un’ulteriore arma per dire ai territori: non possiamo aspettare i tempi della burocrazia e della democrazia degli enti locali, dobbiamo fare presto, dobbiamo decidere (la materia energetica fornisce tanti esempi). E per farlo il luogo della decisione si allontana sempre di più dai cittadini. Ma il dibattito sull’assettoistituzionale non può basarsi su strappi e provvedimenti improvvisati. E non può essere affrontato né con l’approccio di chi deve raccontare al Paese che “abbiamo fatto le riforme” e neanche con quello di chi, per ragioni o motivazioni a volte tattiche e pretestuose, non vuole cambiare nulla.

Il Paese ha bisogno di riforme, di essere più veloce e meno costoso. Ma il luogo della decisione non può, non deve allontanarsi ancora di più dai cittadini.

Il “pasticcio” delle Province dovrebbe insegnare qualcosa. Una riforma il cui costo sociale (ritardi e difficoltà nell’organizzazione dei servizi per la gestione di strade e scuole, oltre che forte demotivazione del personale che comunque non può e non deve essere licenziato) non è da sottovalutare così come quello finanziario, che non è diminuito e viene trasferito in gran parte alle Regioni. E questo mentre i Comuni faticano a costruire processi di unione, non tanto per l’egoismo o per le spinte campanilistiche che qualche volta affiorano fra gli amministratori locali, quanto per l’impostazione sbagliata di una politica della finanza pubblica che da qualche anno fra tagli lineari, cambi repentini di norme e vincoli del patto di stabilità, ha mortificato qualsiasi possibilità di programmazione a medio e lungo e termine.

Per fare e “fare presto” si può anche procedere con l’accetta, ma fare male produce un costo per la collettività. Perché se si indeboliscono i Comuni, soprattutto quelli piccoli e medi, se si lasciano le Province nell’attuale precaria condizione e, senza un disegno organico, si mette in discussione anche l’assetto delle Regioni, il rischio per la comunità è quello di perdere i pochi punti di riferimento che esistono oggi, senza però sapere a chi si potrà fare riferimento domani.

Invece occorre ragionare su un disegno che, guardando alla realtà, possa costruire una riforma necessaria per il futuro del nostro Paese. Si potevano lasciare le Province e fare le macroregioni? Anche questo, forse, poteva essere un modello, ma le funzioni amministrative e gestionali non possono (non devono) essere sovrapposte e confuse con quelle legislative e di programmazione.

Si dice: abbiamo bisogno di una macroregione del Sud per una programmazione più efficace. C’è oggi l’occasione del Masterplan. Ma proprio riguardo ai temi della programmazione nessuno impedirebbe alle Regioni del Sud di dare vita ad un “Gruppo europeo di cooperazione territoriale del Sud”, attribuendo rilevanza di legge ad una simile forma di cooperazione interistituzionale e stabilendo allo stesso tempo che la sessione comunitaria possa divenire momento unificante della  programmazione unitaria dei Consigli regionali, per pianificare l’uso dei fondi comunitari intorno alla realizzazione di pochi grandi obiettivi infrastrutturali. Se si vuole sfuggire alla facile semplificazione (macroregioni) ed affrontare i problemi veri, si discuta di questo. La legislazione comunitaria e nazionale lo consentirebbe.

Del resto la stessa riforma del Titolo V, che cambia l’assetto dei poteri del tra Stato e Regioni ed elimina la materia concorrente. Tuttavia, con le ultime modifiche apportate al Senato, apre spazi interessanti in questo senso. L’approvazione del nuovo articolo 116 della Costituzione prevede infatti “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” in alcune materie, “purché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. Per determinare questa forma di “devoluzione” è necessaria una legge “approvata da entrambe le Camere sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata”.

La materia più interessante fra quelle indicate dal nuovo art. 116 della Costituzione è senza dubbio quella del governo del territorio, peraltro indicata dalla Conferenza delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province Autonome (lo stesso organismo che ha proposto all’unanimità i quesiti referendari su sblocca Italia e decreto sviluppo). Dubito però che questa ‘funzione’, così come le altre che si possono devolvere alle Regioni, potranno essere amministrate scardinando gli attuali confini amministrativi delle Regioni, che rispondono a criteri sperimentati e ad una consolidata tradizione di governo di area vasta a cui fanno riferimento i cittadini.

Il fatto che questa devoluzione possa avvenire solo per le Regioni che dimostrano efficienza rispetto ai fabbisogni e ai costi standard mi pare una sfida ‘competitiva’ da accettare e da valutare tra gli elementi fondanti di un nuovo regionalismo, che possa riavvicinare i cittadini alle istituzioni perché contribuisce a riaffermare la responsabilità dei territori.

In un Paese che deve cambiare e rinnovare le sue istituzioni, è questa la base per ricostruire un patto costituzionale e alimentare la democrazia e la partecipazione. Così, sfuggendo alle facili semplificazioni ed offrendo ai cittadini un quadro organico di riforme possibili, può nascere un diverso Sud e un’Italia migliore. La stessa legge di stabilità in discussione in Parlamento è un banco di prova essenziale in questo senso e richiede una approfondita riflessione non solo sulla quantità di risorse che questa manovra prevede ma più in generale sulle scelte che il Governo mette in campo: sanità, scuola e università in primo luogo. Perché il Sud deve stare al mondo, alla demografia e alla geografia, alle reti materiali e immateriali, alla ricchezza del capitale umano, ai giacimenti della cultura e alla bellezza del paesaggio; ma questa sfida non può essere costruita sui piedi di argilla di diritti di cittadinanza deboli.